mercoledì 28 gennaio 2015

Tengo famiglia. Un mercato del lavoro patriarcale


Un mercato del lavoro patriarcale, familistico, asfittico, imperniato sulla figura del marito breadwinner, sulla marcata segregazione occupazionale sessuale e razziale, sulla crescita dei settori del terziario arretrato e sulla contrazione dell'impiego nelle già poco richieste professioni tecniche e intellettuali più qualificate: è questo il desolante quadro tratteggiato nell'agile e denso volumetto Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi scritto dal sociologo Emilio Reyneri e dalla ricercatrice dell'Istat Federica Pintaldi, pubblicato da Il Mulino, che descrive la situazione delineatasi nel periodo 2008-2012. 

L'Italia è il paese europeo  caratterizzato dalla minore capacità di creare occupazione, che viene ridistribuita tra i "capifamiglia" maschi, a scapito delle mogli o delle conviventi e dei figli. I nuclei familiari con un solo occupato, di regola il padre, rappresentano il 48% del totale. Il tasso di occupazione dei "capifamiglia" uomini (single inclusi) sfiorava nel 2009 l'80%, quello delle donne di pari condizione  solo il 65%, mentre i congiunti (figli e moglie) svolgevano un lavoro retribuito soltanto nel 50% dei casi. Formare un nucleo familiare costituisce, dunque, per gli uomini una garanzia di minore esposizione al rischio di disoccupazione in tutti i Paesi europei, ma soprattutto in Italia. Alle donne accade esattamente il contrario. Lo status di figlia, di coniuge o convivente, soprattutto se madre, comporta un innalzamento del tasso di disoccupazione e di mancata partecipazione al lavoro, ossia di ricerca poco attiva dell'occupazione a causa della frustrazione derivante dalla scarsità di impieghi disponibili e dalla presentazione senza successo di  troppe domande di assunzione.

Il tasso di mancata partecipazione femminile al lavoro nel 2012 ha raggiunto il 15% al Nord, il 27% nell'Italia centrale e addirittura il 43% al Sud, dove risultano occupate soltanto il 34% delle donne.

Che impatto ha avuto la crisi su questa situazione?

L'assetto familistico del mercato del lavoro non è stato sconvolto,  anche se il tasso di occupazione degli uomini breadwinner si è ridotto di due punti percentuali, mentre quello delle donne che svolgono la medesima funzione è aumentato nella stessa misura. La crisi ha però dispiegato i suoi effetti più gravi non sulla famiglia tradizionale composta dalla coppia con o senza figli, ma sui single, privi di lavoro nel 18% dei casi se maschi, nel 23% se femmine. Si è avuto inoltre un incremento dal 17% del 2008 al 20% del 2012 della percentuale di madri single senza occupazione. Il tasso corrispondente per i padri single è del 7% (nel 2008 era pari al 5%).

L'impianto familistico del mercato del lavoro ha subito invece incrinature nel Sud, colpito dalla crisi più duramente del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno negli  ultimi anni si è innescato un processo di riduzione del tasso di occupazione degli uomini breadwinner (dal 75,3% del 2004 al 69,5% del 2012), non compensato da un corrispondente incremento dell'occupazione femminile, sicché la percentuale di famiglie meridionali senza redditi da lavoro né da pensione è cresciuta dal 12% del 2004 al 17% del 2012 e quella dei nuclei familiari poveri ha raggiunto il 23% nel 2011, a causa dell'assenza di efficaci politiche di welfare.

In che modo la crisi ha inciso sulla collocazione delle donne sul mercato del lavoro?

Il tasso di occupazione femminile pari al 46,5% nel 2013 è il più basso dell'Unione Europea. Nel Mezzogiorno nel 2012 svolgeva un'attività retribuita soltanto il 34% delle donne contro il 40% nel 2003. Con l'avvio della crisi nel 2008 e fino al 2011 in tutta Italia una frazione consistente di donne, pari all'8,5% ha cessato, per frustrazione, di ricercare attivamente un'occupazione per  ingrossare le fila degli inattivi disponibili al lavoro. Il quadro è mutato nel 2012, quando il numero dei disoccupati, uomini soprattutto, ha subito una vertiginosa impennata e le casalinghe, per sostenere economicamente la famiglia, hanno iniziato a ricercare attivamente un lavoro senza necessariamente trovarlo. I tassi di occupazione, di disoccupazione e di mancata partecipazione sono diventati più elevati per le single e per le donne con figli, per le quali le rispettive percentuali sono aumentate di oltre 1 punto, di quasi 1,5 punti e di 1 punto. L'incremento dell'offerta di lavoro ha coinvolto soprattutto le donne con titolo di studio non superiore alla licenza media, appartenenti, dunque, a famiglie di ceto medio-basso, le cui condizioni economiche  sono diventate critiche, probabilmente in seguito al licenziamento o alla messa in cassa integrazione del  marito o convivente breadwinner. Queste donne vorrebbero esercitare un'attività retribuita a tempo pieno: bisogno irrimediabilmente frustrato.

Dal 1993 anche in Italia, come in altri Paesi europei, l'incremento dell'occupazione femminile è in larga misura connesso alla crescente diffusione del part-time, tanto che dal 2004 al 2012 tutti i  700.000 nuovi posti di lavoro per le donne sono a tempo parziale, anche se esse desidererebbero spesso esercitare un'attività a tempo pieno, l'unica in grado di garantire l'indipendenza economica, considerato l'infimo livello dei salari italiani. La percentuale di part-timer involontarie è aumentata dal 38% nel 2008 al 54% nel 2012, un incremento molto marcato, che accomuna l'Italia ai Paesi europei più duramente colpiti dalla crisi: Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo.

Ad influenzare fortemente il tasso di partecipazione femminile al lavoro è la carenza di servizi pubblici, soprattutto di quelli destinati all'infanzia, e il deciso squilibrio fra uomini e donne nella ripartizione del lavoro domestico e di cura.  

La crisi ha accresciuto l'instabilità occupazionale dei giovani, soprattutto di quelli più istruiti. Nel 2012 il 52% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa fra i 15 e i 24 anni svolgeva un lavoro precario contro il 42% del 2007. Nello stesso periodo la percentuale dei giovani adulti dai 25 ai 34 anni con un impiego a tempo determinato  è aumentata dal 20% al 23%, ma ha raggiunto addirittura il 70% fra i laureati (era pari al 65% nel 2007).

Circa un quinto dei precari lo è da oltre cinque anni. Quasi il 30% di loro è occupato in settori caratterizzati da un'elevata stagionalità come l'agricoltura e il turismo e oltre il 30% nella pubblica amministrazione, nell'istruzione e nella sanità. Si comprende quindi perché l'incidenza  dei lavori instabili di lungo periodo sia maggiore tra le donne (circa due punti percentuali di differenza rispetto agli uomini) e soprattutto nel Mezzogiorno che presenta un tasso di precarietà prolungata che oscilla intorno al 26% contro il 16-18% del Centro-Nord.

Provate ad immaginare che impatto avrà in un mercato del lavoro siffatto l'applicazione della legge Poletti e del Jobs act.

La crisi ha accelerato il processo di deindustrializzazione, colpendo principalmente l'occupazione manifatturiera (8% in meno nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012, con l'esclusione, però dei cassintegrati), oltre a quella impiegata nell'edilizia. L'industria italiana risulta più esposta alla concorrenza internazionale perché poco innovativa e più specializzata in produzioni a bassa tecnologia. L'occupazione si è ridotta anche nel settore del credito e delle assicurazioni, nel commercio e nei trasporti e ciò è avvenuto anche negli altri paesi della UE. E' aumentata, invece, nella sanità e nei servizi sociali, ma si è ridotta nella pubblica amministrazione. A questo proposito, è importante ricordare che l'Italia, contrariamente a quanto comunemente si crede, non è caratterizzata da un surplus di lavoratori in questi due settori, essendovi un occupato nella sanità e nei servizi sociali ogni 34 abitanti e un impiegato nella pubblica amministrazione ogni 44 contro una media europea rispettivamente di 20 e 33 abitanti.

A connotare la situazione italiana e a differenziarla da quella degli altri Stati europei è, però, la riduzione dell'occupazione nell'istruzione e nei servizi all'impresa, inclusa la ricerca e lo sviluppo e l'aumento considerevole nei servizi per le famiglie, ossia nel lavoro domestico e nell'assistenza delle persone anziane. La crisi ha prodotto, quindi, un'accelerazione del processo di terziarizzazione a favore dei settori arretrati e a discapito di quelli più innovativi che incorporano maggiori conoscenze tecnologiche, scientifiche e culturali, al contrario di quel che è accaduto in altri Paesi europei, in particolare in Germania. Il lavoro cognitivo assorbe solo il 12% degli occupati, una percentuale inferiore di sette punti a quella tedesca e di dieci a quella francese.

Ho fatto cenno all'assistenza alle persone anziane che, in un mercato del lavoro contrassegnato da  una rigida segregazione occupazionale sessuale e razziale, è affidato nella misura del 75% alle  donne emigrate.

In Italia risiedono quasi 5 milioni di cittadini stranieri, corrispondenti a circa l'8% della popolazione. Quasi un terzo di loro proviene da uno Stato membro dell'Unione Europea. Oltre la metà degli immigrati non comunitari è provvisto di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, che si acquisisce solo dopo aver esercitato per almeno 5 anni un lavoro regolare e aver dimostrato di possedere una buona conoscenza della lingua italiana e di abitare in un alloggio adeguato.

Ai cittadini stranieri sono riservate le occupazioni più faticose e meno qualificate, anche a causa del perverso legame che la legge Bossi-Fini sull'immigrazione ha stabilito tra concessione del permesso di soggiorno e svolgimento di un lavoro. Per trovare rapidamente un'occupazione occorre adottare una strategia di ricerca poco selettiva ed accettare la prima occasione che si presenta, benché pessima. Quasi tutti gli immigrati, quindi, anche quelli provvisti di un elevato titolo di studio, sono collocati ai gradini più bassi della gerarchia occupazionale. Le posizioni meno prestigiose sono occupate dalle donne, dal momento che, ovviamente, il principio della divisione  sessuale del lavoro  si applica anche e in modo ancora più rigido ai cittadini stranieri, processo accentuato dalla crisi. Così, dal 2008 al 2012  la percentuale degli occupati in attività elementari, prive di uno specifico contenuto professionale, è cresciuta dal 22% al 28% per gli immigrati e dal 40% al 43% per le immigrate. Anche la percentuale di lavoratori manuali specializzati è diminuita per entrambi i generi, mentre è aumentata, soprattutto per le donne, quella degli addetti ad attività commerciali e ai servizi alla persona (cameriere, commesse e "badanti").

Quanto ai settori produttivi, tralasciando l'agricoltura (ove la presenza degli immigrati è fortemente sottostimata dalla rilevazione sulle forze di lavoro, che ignora gli stagionali e gli irregolari), quelli caratterizzati da una maggior concentrazione di cittadini stranieri sono i servizi alle famiglie (oltre il 76%), le costruzioni (quasi il 19%), gli alberghi e la ristorazione (circa il 16%), l'industria manifatturiera (quasi il 10%) e i trasporti (oltre il 9%).

Tra le generazioni più giovani di operai le percentuali di stranieri sono molto elevate: sino ai 34 anni gli immigrati sfiorano il 23% fra gli specializzati, superano il 26% tra i semi-qualificati e il 40% tra i non qualificati. La presenza di lavoratori stranieri è ancora più massiccia nelle piccole imprese ove il lavoro manuale risulta particolarmente gravoso.

Alle donne immigrate viene invece accollato in misura preponderante (oltre il 75% del totale) il lavoro domestico e di assistenza agli anziani, ma si registra anche una loro cospicua presenza nel settore sanitario dove svolgono- non c'è bisogno di dirlo - i lavori più gravosi, monotoni e meno qualificati, in particolare quello di inservienti e di addette alle pulizie (il 25% del totale per le giovani fino a 34 anni), ma anche l'attività di infermiere.

 

Che fare?

In Italia il tempo consacrato dalle donne al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell'Unione Europea e quello che vi dedicano gli uomini il più basso (dati Eurostat del 2006). Allo stesso tempo il  tasso di occupazione femminile è il meno elevato . I due dati sono strettamente correlati, naturalmente. Altrettanto evidente  appare la connessione tra l'assetto familistico del mercato del lavoro e quello del welfare, impostato sulla rigida divisione dei ruoli di genere. Gli uomini provvedono al mantenimento della famiglia, le donne sono delegate (e relegate) allo svolgimento del lavoro domestico e di cura. A loro continua  ad essere affidata l'assistenza degli anziani non autosufficienti, degli infermi e dei bambini, considerata la drammatica carenza dei servizi pubblici. E' necessario pertanto destrutturare l'intero sistema imperniato sul principio della divisione sessuale del lavoro se si vuole riequilibrare il rapporto fra uomini e donne.

Come procedere?

Non me ne intendo di economia, ma posso attingere ad un vasto repertorio di idee e proposte già formulate da altri  ed aggiungerne qualcuna nuova (non so quanto realizzabile  per la verità):

1) Per evitare la discriminazione delle donne, dei migranti e dei giovani sul mercato del lavoro, si dovrebbe ripristinare l'obbligo della richiesta numerica nelle assunzioni, abrogato nel 1987 e sostituito dalla chiamata nominativa. Il sistema è stato poi completamente liberalizzato nel 1996.  I datori di lavoro, che intendono assumere personale, dovrebbero cioè rivolgersi obbligatoriamente ai Centri per l'impiego  e presentare una "richiesta di avviamento al lavoro", nella quale andrebbero inseriti soltanto dati relativi al numero dei dipendenti richiesti e alla qualifica che devono possedere. Gli aspiranti lavoratori verrebbero inclusi in un'unica graduatoria, non differenziata, cioè, per genere e per nazionalità. Il sistema violerebbe le norme sulla libera concorrenza? Embé! Infrangiamole! Il principio della non discriminazione è più importante del rispetto delle regole del mercato.

2) Si dovrebbe procedere alla riduzione massiccia dell'orario di lavoro a parità di salario. Ciò consentirebbe di ridistribuire su una più ampia platea di soggetti gli impieghi disponibili. Questa misura dovrebbe essere affiancata dalla promozione di un processo di socializzazione e da un mutamento culturale tale da produrre lo smantellamento dei ruoli di genere. Gli uomini sarebbero così indotti a svolgere le stesse mansioni domestiche e di cura delle donne. La riduzione dell'orario di lavoro si tradurrebbe pertanto in una più equa ripartizione non solo degli impieghi produttivi, ma anche di quelli riproduttivi e in una più ampia disponibilità di tempo libero, soprattutto per le donne. La produzione dovrebbe essere cioè riprogettata e adattata a lavoratori e a lavoratrici che si assumono in ugual misura responsabilità di cura.

3) Si dovrebbe diminuire in modo significativo anche l'età pensionabile.

4) L'intera normativa sul lavoro che in questi due decenni ha introdotto la precarietà ed ha sottratto diritti alle lavoratrici e ai lavoratori dovrebbe essere abrogata, a partire dalla legge Poletti che ha sancito la totale liberalizzazione del contratto a termine e dal Jobs Act (legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 e relativi decreti attuativi sui licenziamenti).

4) Si dovrebbe introdurre un reddito di esistenza universale e incondizionato, esteso agli immigrati. La sua erogazione potrebbe configurarsi come un potenziale contropotere, che incrinerebbe le condizioni di forte subordinazione dei  precari. Garantire infatti un reddito stabile e continuativo a prescindere dalla prestazione lavorativa significherebbe ridurre il grado di ricattabilità dei singoli lavoratori/trici e incrementare il loro potere contrattuale.  Significherebbe anche affermare il diritto di scegliere l'attività lavorativa e di riappropriarsi della quota di ricchezza sociale che si è contribuito a creare per il fatto stesso di esistere e di esercitare costantemente le proprie capacità di apprendimento e come remunerazione del lavoro produttivo di valori d'uso.  La disponibilità di un reddito  costituirebbe, soprattutto, uno strumento importante per l'esercizio dell'autodeterminazione, in particolare per le donne, in maggioranza prive di un'occupazione retribuita, consentirebbe alle vittime di sfuggire più agevolmente alla violenza dei partner e alle mogli prive di lavoro di separarsi più facilmente dai compagni nel caso in cui il matrimonio o la convivenza fossero diventati fonte di infelicità.

Si dovrebbe però scongiurare il fatto che l'introduzione di tale misura si risolva in una rinuncia  da parte delle donne ad esercitare un'attività extradomestica che ritengono gratificante  per evitare la fatica del doppio lavoro e in un disimpegno ancora maggiore degli uomini nello svolgimento delle incombenze domestiche e nell'assistenza a bambini, anziani, infermi. Ne deriverebbe il rafforzamento dei tradizionali ruoli di genere e, forse, un ulteriore ridimensionamento dello stato sociale.

Si dovrebbe soprattutto evitare che i datori di lavoro accentuino la loro predilezione per gli uomini nelle assunzioni, consolidando e irrobustendo la struttura familistica e patriarcale dell'organizzazione produttiva.

Per sfuggire a queste conseguenze  è fondamentale, a mio avviso, affiancare  a questo provvedimento la riduzione dell'orario di lavoro e innescare un processo di decostruzione dei generi e delle funzioni ad essi attribuite.

5) Si potrebbe eventualmente prendere in considerazione la creazione diretta da parte dello Stato o dell'Unione Europea di nuova occupazione qualificata, socialmente utile ed ecocompatibile e si dovrebbe procedere alla riconversione secondo tali principi dell'intera economia.

6) Si dovrebbe introdurre un salario minimo europeo e pretendere il superamento del blocco dei contratti nella pubblica amministrazione contro il quale i sindacati hanno già depositato un ricorso al Tribunale di Roma, sollevando la questione di legittimità costituzionale.

7) Ritengo poi indispensabile estendere e riconfigurare il welfare state, o meglio, organizzare un commonfare imperniato sulla cooperazione sociale nella gestione dei beni comuni.

8) Ciò comporta preliminarmente l'abrogazione della norma sul pareggio di bilancio inserita nella Costituzione dal Parlamento italiano nel 2012 e la disapplicazione dei trattati europei di impianto neoliberista, a partire da quello sulla stabilità, coordinamento e governance nell'Unione economica e monetaria, noto come fiscal compact, che prevede fra l'altro l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL  di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni  ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità e il dovere di avere un deficit pubblico strutturale non superiore allo 0,5% del PIL. Si dovrebbero altresì modificare le disposizioni che regolamentano il funzionamento della Banca d'Italia, obbligandola ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. Ne deriverebbe il calo degli interessi su BOT e CCT e, dunque, la riduzione del debito pubblico e la salvaguardia dell'Italia da ulteriori manovre speculative. In assenza di questi provvedimenti, assisteremo - temo - ad un'ulteriore contrazione della spesa pubblica e all'accelerazione del processo di privatizzazione e di smantellamento del welfare state. Altro che espansione!

Si dovrebbe poi procedere alla ristrutturazione del debito pubblico e proclamare il diritto all'insolvenza.

9) Si potrebbe, come proposto dagli intellettuali neo-operaisti, istituire una "moneta del comune" intesa come riconoscimento e remunerazione del lavoro vivo incorporato nelle attività di riproduzione e come potere d'acquisto da spendere  nei servizi sociali (sanità, istruzione, cura..., ma anche trasporti) offerti all'interno di un circuito di valorizzazione consacrato alla produzione di valori d'uso e non di scambio.

10) Le politiche di welfare dovrebbero includere anche l'estensione della durata del congedo  di paternità per nascita di un figlio. Il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro dovrebbe essere  di pari durata di quello di maternità o, almeno, di tre mesi da fruire dopo il parto della partner. Il padre del bambino, proprio come la madre, dovrebbe percepire un'indennità sostitutiva di importo pari a quello della retribuzione. Il congedo parentale (facoltativo) dovrebbe essere fruito da entrambi i partner e comportare la corresponsione di un'indennità pari o di poco inferiore all'importo della retribuzione. Finché verrà retribuito al 30% del salario, ne fruiranno solo le madri, che, com'è noto, percepiscono di solito una remunerazione inferiore a quella dei compagni.

11) Si potrebbero sperimentare forme di socializzazione del lavoro domestico e di cura che coinvolgano anche gli uomini e nuove modalità abitative che incentivino la cooperazione  nell'attività di riproduzione

12) Si dovrebbero promuovere forme di autorganizzazione e di autogestione.

13) Si dovrebbe abrogare la legge Bossi-Fini che, collegando la concessione del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro, obbliga gli stranieri ad accettare qualsiasi impiego  ed impone loro l'assoggettamento alle peggiori forme di sfruttamento. Si dovrebbe applicare il principio della libera circolazione di tutti in qualsiasi parte del mondo e quello dello ius soli per i figli degli immigrati nati nel nostro Paese.

14) I titoli di studio conseguiti dai migranti nel loro Stato dovrebbero essere riconosciuti in Italia.

15) Agli immigrati dovrebbe essere garantito il godimento di tutti i diritti sociali assicurati ai cittadini italiani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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