martedì 15 luglio 2014

L'incontro alla libreria delle donne di Milano: il corpo rimosso e le richieste di giustizia


 
Ho partecipato, venerdì 11 luglio, all'incontro dal titolo "La violenza fuori e dentro di noi",  organizzato dalla Libreria delle donne di Milano e dall'associazione Maschile Plurale. Timidezza ed ansia (fortissima) mi hanno impedito di intervenire.  Sono afflitta e mortificata. Mi sento invasa dai sensi di colpa, perché sarebbe stato importante per me, in quest'occasione, prendere posizione, rendere concreta, materiale la mia presenza con parole che fossero non solo espressione di un pensiero  che si iscrivesse nella pratica femminista del "partire da sé", ma anche testimonianza della mia vicinanza alla persona che ha subito in questo periodo  una reiterata rivittimizzazione e manifestazione della mia solidarietà a tutte le vittime di violenza. Le parole possono avere un corpo, "abbracciare, toccare, materializzare l'incontro" scriveva Daniela  sul periodico femminista "Sottosopra" nel 1974.  Parole che non sono stata in grado di pronunciare. Tuttavia, se è vero che esistono parole incarnate, è altrettanto vero che il corpo e i gesti parlano, comunicano, esprimono sentimenti ed emozioni e del compimento di  un azione   mi ritengo soddisfatta:   essere stata presente.
Al corpo, ai gesti  e alle posture vorrei  riferirmi per esprimere il mio disappunto   nei confronti dell'atteggiamento assunto da Marco Deriu, efficacemente illustrato da Ricciocorno Schiattoso  in un post che invito a leggere con attenzione,  il mio sconcerto  per il rapido dileguarsi di  Ciccone, promotore dell'incontro.  Un comportamento irrispettoso e  in evidente contrasto con l'enfasi posta da Maschile Plurale sulla rilevanza dell'incontro in presenza. Un atteggiamento  inconciliabile peraltro con le posizioni teoriche espresse dal gruppo, imperniate sulla riscoperta  del corpo maschile rimosso e sulla rivalutazione dei gesti, dei sentimenti, delle emozioni, solitamente represse o sublimate dagli uomini e tradizionalmente considerate, nell'ordine simbolico patriarcale, come caratteri distintivi delle donne. Sicché il famoso incontro in presenza si è tradotto in "visibile" assenza: assenza di sguardi e di ascolto da parte di  alcuni esponenti di Maschile Plurale  e in evidente rimozione del corpo. Per una sorta di eterogenesi dei fini, si è prodotto, però,  paradossalmente, l'effetto contrario: quello di una sovraesposizione, di un'ipervisibilità  di corpi che si pretendevano eterei. Chi si comporta come se non ci fosse, infatti, si nota  molto più degli altri.
Il corpo rimosso è  riemerso enfatizzato e ingigantito, per restare al paradosso,  nel primo intervento di Marco Deriu, che, ricostruendo la genesi dell'emersione del caso che ha dato origine al dibattito, ha detto che "i primi messaggi apparsi su facebook parlavano della violenza in generale:  sembrava che qualcuno fosse stato picchiato" e ha proseguito il discorso  osservando che la difficoltà è  consistita nel fatto che si è trattato di violenza psicologica quindi non di un gesto, di un episodio di violenza fisica, ma di un processo.   Il discorso e, soprattutto, la frase " sembrava che qualcuno fosse stato picchiato"   mi pare esprima una sottovalutazione della gravità della violenza psicologica. Poiché questa lacera la mente, lasciando apparentemente intatto il corpo,  viene minimizzata o, per lo meno, percepita come meno drammatica della violenza fisica. Che poi, a dirla tutta,  - e chi l'ha vissuta lo sa - non è vero che la violenza psicologica non iscriva i suoi segni nella carne, giacché spesso produce  forme di somatizzazione  del dolore. Inoltre, uno stato perenne di ansia e di paura  plasma il corpo, ne modifica posture e atteggiamenti.
La gravità della violenza psicologica è stata, del resto, sottolineata da Marisa Guarneri del Centro Antiviolenza di Milano, oltre che da Katia Salvaderi che ne ha chiesto con veemenza ed indignazione la stigmatizzazione da parte di Maschile Plurale.
Il corpo, dunque, nel corso dell'incontro, è stato occultato e riscoperto a seconda delle circostanze e delle convenienze dagli esponenti  dell'associazione.
Nei testi scritti da Ciccone e Deriu compaiono spesso i termini "cura del vivere", "sensibilità" e "capacità di ascolto", virtù relazionali che, a mio parere,  non hanno saputo manifestare nel corso dell'incontro. I loro interventi mi sono parsi sordi alle critiche e alle  richieste  espresse con forza e determinazione da tutt* coloro che hanno partecipato con passione al dibattito e costantemente protesi, invece, alla discolpa. Dalle donne che subiscono violenza, ha, ad esempio, osservato Luisa Muraro, " viene una domanda di giustizia che voi non ascoltate. La vostra risposta è un’autodifesa ".
E' mancata una chiara assunzione di responsabilità, ben presente invece  nel bel discorso di Massimo Lizzi, che   ha riconosciuto  la sua integrazione  nel sistema patriarcale  ed ha sottolineato come tutti gli uomini traggano vantaggio dalla violenza sulle donne. E' lo stesso concetto espresso, da Patrizia Romito, psicologa sociale e femminista materialista in Un silenzio assordante:


Da questa analisi non consegue che tutti gli uomini sono violenti. Ne consegue invece che tutti gli uomini, anche coloro che non sono violenti, ricavano dalla violenza esercitata da alcuni: facilità di accesso a rapporti sessuali, servizi domestici gratuiti, accesso privilegiato a posizioni lavorative più elevate e meglio retribuite. (p.40)

Non è la mancanza di consapevolezza, il disconoscimento e la non frequentazione dell'ombra che recano in sé, infatti, a determinare il protrarsi della violenza dei maltrattanti. Lo sottolineava Ricciocorno  nel suo splendido e coinvolgente discorso.
I maltrattanti non sono affatto incapaci di gestire il conflitto e lo stress in modo pacifico, né agiscono in preda a raptus. Non sono inclini alla perdita dell'autocontrollo in situazioni di esasperazione. Al contrario! Quando praticano la violenza mantengono lucidità e consapevolezza delle azioni che compiono e delle parole che pronunciano, che ritengono moralmente accettabili. La negazione, la rimozione, la minimizzazione dei propri comportamenti, la giustificazione autoassolutoria, la dislocazione della colpa sulla vittima intervengono a posteriori come tattiche funzionali al mantenimento dell'integrità della propria immagine e alla prosecuzione della violenza, dalla quale il maltrattante ricava vantaggi  ai quali non intende rinunciare.
In Uomini che maltrattano le donne Lundy Bancroft osserva, ad esempio, che gli uomini violenti si attribuiscono uno status speciale che conferisce loro diritti esclusivi e privilegi che perpetuano la disuguaglianza sociale e domestica tra i sessi. Si ritengono in diritto di ricevere, senza contraccambiarle, costanti ed ininterrotte cure domestiche ed emotive, deferenza, appagamento sessuale e pretendono di essere esentati da qualsiasi responsabilità. Se le partner non sono sufficientemente solerti nel soddisfare i loro desideri o richiedono reciprocità nelle manifestazioni di affetto, collaborazione nello svolgimento delle mansioni domestiche e nella cura dei bambini e assunzione di responsabilità, i maltrattanti si ritengono autorizzati a ribadire, anche con l'uso della violenza, la diseguaglianza dei diritti dei membri della coppia.
Gli abusi garantiscono il mantenimento del potere e del controllo sulle partner e l'esercizio del dominio gratifica  i maltrattanti. Adottando comportamenti aggressivi, i violenti ottengono dal rapporto la soddisfazione completa dei propri desideri, senza compiere alcun sacrificio e, soprattutto, senza darsi la pena di appagare le esigenze delle compagne. Si garantiscono, senza offrire reciprocità, l'esaudimento dei propri bisogni affettivi, la presa in carico dei propri problemi da parte delle compagne, il godimento, rispetto a queste ultime, di una maggior quantità di tempo libero, assicurato dal rifiuto ad accettare un'equa ripartizione del lavoro domestico e di cura. Si pongono al centro dell'attenzione, acquistano la certezza che la propria carriera ed altri obiettivi personali saranno sempre considerati prioritari, ricevono l'approvazione di amici e parenti che condividono il loro "sistema di valori". Con l'esercizio della violenza, infine, gli uomini maltrattanti impongono alle partner norme che essi si esentano dal rispettare, come alzare la voce, adirarsi, formulare una critica ecc. "Se vogliamo che [i violenti] cambino - osserva Lundy Bancroft - dobbiamo chiedere loro di rinunciare al lusso dello sfruttamento".
Patrizia Romito, a sua volta, scrive:

La violenza è una strategia sistematica per mantenere le donne subordinate agli uomini.
Lungi dal consistere in comportamenti devianti o spiegabili con problemi psicologici del singolo uomo, la violenza maschile rappresenta uno strumento razionale, che per funzionare efficacemente, come di fatto funziona, necessita di un sistema organizzato di sostegno reciproco e di complicità ampie a livello sociale.

Non si può chiedere, quindi, di comprendere la sofferenza del maltrattante, soprattutto alla sua vittima, poiché è proprio l'eccesso di empatia, di immedesimazione nell'altro, ha osservato  giustamente Ricciocorno, a impedire alla donna di intraprendere il percorso di uscita dalla violenza.
Dal momento che gli unici discorsi maschili convincenti mi sono parsi quelli di due uomini che non  fanno parte di alcuna associazione antisessista: Massimo e Tommaso, mi chiedo se l'omosocialità, in qualsiasi forma si manifesti, non contribuisca in realtà a mantenere intatto  il sistema patriarcale,  quanto meno attraverso l'attivazione di solidarietà e di comportamenti di difesa corporativa degli associati, qualsiasi atteggiamento essi assumano. Mi chiedo inoltre quali mutamenti  nei rapporti tra uomini e donne riescano a produrre  le associazioni maschili antisessiste. Io non ne ho notati.
Nel corso dell'incontro sono state rivolte, soprattutto dalle donne, determinatissime e appassionatissime, ma anche da Massimo Lizzi e da Tommaso, numerose critiche e richieste agli esponenti di Maschile Plurale, che condivido e rilancio. Si è richiesta:
1) giustizia, verità, rispetto e riconoscimento degli errori commessi;
2) assunzione di responsabilità;
3) stigmatizzazione della violenza psicologica, non solo di quella fisica e sessuale;
4)  adozione di protocolli che non consentano a  sospetti maltrattanti di partecipare a conferenze o di svolgere attività  di formazione contro la violenza sulle donne a nome dell'associazione. Non si può impedire  ad alcuno, naturalmente, di presenziare a convegni e incontri, ma i sospetti violenti lo devono fare a proprio nome.
5) Da parte mia,  rinnovo l'appello a interrogarvi sui motivi che vi inducono a partecipare ad un'associazione antisessista.  A questa istanza affianco l'invito a chiedervi a cosa serva davvero la vostra organizzazione.



 




 
 


 
 





 

Nessun commento:

Posta un commento