giovedì 24 luglio 2014

Case occupate femministe


"Vorrei l'altrove e lo coltivo dentro di me, lo alimento e lo sento. E perché non rimanga solo un sogno, l'antico immaginario di cui si sono nutrite le donne nella depressione della non-esistenza, vorrei radicarlo nel calore dei nostri rapporti, nella strutturata materialità che i nostri desideri sanno e sapranno costruire". Così scrive Daniela Pellegrini, la fondatrice del neofemminismo italiano (quello degli anni Settanta), in Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare. E della materialità  degli intensi rapporti fra donne radicata negli spazi occupati berlinesi parla questo articolo, da me tradotto, di Édith Gaillard, autrice anche di una lunga, interessante e approfondita tesi di dottorato sull'argomento, il cui contenuto prima o poi vi esporrò. Sono consapevole del carattere inattuale e utopistico dell'articolo di Gaillard, calato nel contesto italiano, caratterizzato, da un lato, dai frequenti sgomberi di case e spazi occupati che avvengono anche in città amministrate  dalla "sinistra", dall'altro - fatto ancor più grave - dalla vigenza del decreto legge 28 marzo 2014  n. 47, convertito in legge in maggio (il cosiddetto Piano casa o decreto Lupi), il cui art.5  recita " Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo  non  può chiedere la residenza  ne'  l'allacciamento  a  pubblici  servizi  in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi  in  violazione  di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge". Si tratta di una disposizione di estrema gravità, perché, oltre a privare gli occupanti di case dell' elettricità, del gas,  dell'acqua e  del telefono, li defrauda   dei diritti costituzionalmente garantiti. Senza residenza, infatti, non  è possibile disporre della carta d'identità, lavorare,  mandare i figli a scuola, fruire delle prestazioni del servizio sanitario nazionale e del welfare e percepire l'assegno pensionistico.
In queste condizioni e considerata la precarietà che connota le nostre esistenze, coltivare l'altrove è davvero difficile.
Non cesserò, però, di illustrarvi pratiche femministe alternative, antagoniste diffuse in altri Stati, pratiche che materializzano l'utopia ed erodono il capitalismo dall'interno.
 

Dallo squat all'habitat
All'inizio degli anni Ottanta, si potevano già leggere sulle facciate di alcune case occupate di Berlino Ovest slogan come: "Il futuro sarà donna". "Le donne vivono, amano, lavorano".  "Non sempre si deve essere gentili. Preparatevi alla rabbia delle donne". All'epoca Berlino Ovest conosceva un forte movimento squat, con l'occupazione di più di 150 stabili nel solo quartiere di Kreuzberg. Fu in questo contesto che militanti femministe, aderenti al movimento alternativo, autonomo e libertario tedesco, fondarono spazi abitativi autonomi. Se alcune di loro si opponevano radicalmente, attraverso le occupazioni, all'ordine sociale vigente in Germania, la maggioranza era costituita da donne  definite "instandbesetzer-innen", ossia "occupanti- restauratrici", in quanto cercavano di ristrutturare gli immobili  dismessi.
Queste occupazioni avvenivano in un contesto nel quale la vetustà del patrimonio immobiliare di Berlino Ovest e l'aumento della domanda avevano determinato l'implementazione di due politiche particolari: una di sovvenzione alle ristrutturazioni e l'altra volta alla demolizione e alla ricostruzione del patrimonio immobiliare della città. Queste due politiche venivano utilizzate congiuntamente come strategie speculative da alcuni proprietari che riscuotevano i finanziamenti per la ristrutturazione dei beni immobili, che lasciavano tuttavia deteriorare per ottenere il diritto di abbatterli e di costruirne di nuovi.
Questa deriva speculativa fu oggetto di contestazioni da parte degli abitanti dei quartieri interessati che si consideravano doppiamente colpiti: come contribuenti, chiamati a finanziare la politica di sovvenzioni alle ristrutturazioni degli immobili e come inquilini danneggiati dall'incremento degli affitti.
Gli squatters, perciò, si organizzarono per occupare immobili dismessi ed ottenere la legittimazione giuridica a ristrutturarli. Alcun* squatters si videro riconoscere, seppure in modo precario, la legittimità dell'occupazione.
 
Una prospettiva femminista sull'habitat
Le militanti impegnate nel movimento di occupazione sostengono che le donne siano le più direttamente coinvolte dalla questione abitativa e le prime interessate al rinnovo urbano. Sono le donne ad occuparsi della casa e a frequentare il quartiere a causa del ruolo sociale  che ricoprono e delle funzioni  che vengono loro attribuite. Sono loro a soffrire  della disgregazione dei rapporti di vicinato determinata dalle logiche speculative, mentre le politiche che la producono sono implementate dagli uomini che detengono il potere. L'occupazione di edifici si trasforma, per loro, in  una strategia di resistenza. Si tratta di contrastare l'espulsione dal centro della città, di formare comuni, di usare  gli stabili vuoti per finalità politiche e di ristrutturarli per creare spazi che possano percepire come propri.
Nel 1981 l'edificio al n.5 della Liegnitzerstrasse apparteneva ad un gruppo privato che eccelleva in ciò che gli squatters denunciavano: la speculazione edilizia. L'immobile era abbandonato da quasi cinque anni, ma il gruppo proprietario si arricchiva riscuotendo le sovvenzioni destinate a chi ristruttura un appartamento. Una volta occupato, l'edificio venne chiamato "casa delle streghe". Vi dimoravano 12 "donne e lesbiche" (secondo la loro stessa definizione) del movimento autonomo berlinese. Anche l'edificio situato al n.58 della Naunynstrasse era di proprietà di una società privata che, attraverso la riclassificazione fra le abitazioni di lusso, voleva accrescerne il valore di mercato. Una dozzina di donne si oppose a questo progetto di "risanamento" e occupò l'edificio.
Questa prima ondata di occupazioni venne bloccata nell'autunno del 1984, periodo di avvio di una politica di sgomberi senza preventiva negoziazione con le autorità pubbliche. Tuttavia, fu nel frattempo intrapreso anche un processo di "legalizzazione" delle occupazioni. Così, cinque occupazioni effettuate da donne furono regolarizzate, ricorrendo all'affitto o all'acquisto degli immobili. Gli edifici in questione sono ancor oggi gestiti da donne.
Nel 1989, la caduta del Muro di Berlino impresse un nuovo impulso al movimento delle occupazioni, soprattutto ad Est. Nell'aprile 1990, un centinaio di autonomi e di libertari occupò dodici stabili nella Mainzerstrasse nel quartiere di Friedrichshain. Uno di questi edifici fu riservato a "donne e lesbiche". Vi dimoravano 15 persone. Avevano un bar, uno spazio di socialità aperto a tutti e un garage. Se questa occupazione si concluse con lo sgombero, in seguito furono sperimentate numerose altre occupazioni femministe. Poteva trattarsi di un intero condominio o di un solo piano o di una parte dell'edificio. Come negli anni Ottanta, numerose occupazioni furono rese permanenti attraverso l'affitto.
 
Il Liebig 34, uno squat femminista regolarizzato
Il Liebig 34 fa parte di questa geografia contestataria. Occupato nel 1991, poi  regolarizzato, l'edificio è abitato da sole donne dal 1996. Questo stabile femminista nasce, secondo le abitanti, dall'attenta valutazione delle "oppressioni che subiscono le donne, ma anche le altre minoranze soggette alle discriminazioni e ai pregiudizi  generati dal sistema eteronormativo". Se lo squat esiste da una ventina d'anni, le sue attuali abitanti non sono  quelle che hanno dato origine all'occupazione, alla regolarizzazione e al separatismo deciso qualche anno dopo da un gruppo di militanti femministe.  L'edificio ospita ora, distribuite su quattro piani, 35 persone di età compresa fra i 20 e i 30 anni, provenienti da ogni parte del mondo.
Al pianterreno si trova una libreria alternativa e un bar di proprietà del collettivo. Si tratta di due spazi non commerciali e autogestiti, concepiti in opposizione all'alienazione polimorfa e onnipresente e al processo di normalizzazione del sistema capitalista. Un atrio conduce a un cortile interno nel quale le abitanti riparano le biciclette, tagliano la legna per alimentare la stufa d'inverno, fanno bricolage e praticano diverse attività artistiche. Questo cortile è anche lo spazio di manifestazioni aperte agli abitanti del quartiere: vi si organizzano mercatini, concerti, cene sociali.
L'organizzazione collettiva dello squat si basa sui principi dell'orizzontalità, della solidarietà e dell'autonomia.
L'orizzontalità, in particolare, è fondata sull'apprestamento  degli strumenti necessari a consentire a tutte di esprimersi nelle assemblee. L'idea è quella di sviluppare la capacità di ascolto, di favorire il silenzio propizio alla presa di parola delle donne timide, di accettare la lentezza nell'assunzione delle decisioni.  Si esercita la vigilanza collettiva affinché ciascuna possa esprimersi, se lo desidera.
La solidarietà si costruisce attraverso la condivisione delle risorse e l'apertura della casa alle persone in difficoltà. Al primo piano, una stanza collettiva è consacrata all'ospitalità gratuita di queste persone. Dopo quindici giorni di permanenza, è prevista la partecipazione alle spese da parte delle ospiti che se lo possono permettere. Questa flessibilità vale anche per le residenti che devono pagare l'affitto. Quelle, fra loro, che hanno difficoltà economiche possono segnalarle durante l'assemblea settimanale ed essere esentate dal versamento  del canone d'affitto, che verrà esborsato dalle compagne.
L'autonomia consiste principalmente nel fare da sé. La casa occupata diventa il luogo di scambio di saperi e di saper fare. Viene infranto il complesso di norme implicite ed esplicite che attribuiscono lavori, valori, responsabilità e obblighi distinti ai generi:
"All'improvviso, ti trovi in un posto in cui non esistono differenze di genere. Non ho mai eseguito prima lavori di costruzione. Ho avuto la possibilità di farli e mi sono piaciuti: costruire cose, aggiustarle, ripararle".
Il separatismo permette alle residenti di rimettere in discussione i ruoli stereotipati attribuiti alle donne. Lo squat diventa "lo strumento" che permette "di essere se stesse senza essere il proprio genere. Perché, non essendoci uomini, i ruoli sono totalmente distrutti. Quindi, questo significa che puoi essere te stessa senza dover lottare  quotidianamente per non dover essere la "donna"   imposta dalle norme culturali e sociali".
Un certo numero di residenti si sono stabilite nella casa occupata senza aver precedenti esperienze di impegno collettivo e/o militante. Così, la dimensione femminista dello spazio abitato non costituisce necessariamente la prima ragione dell'insediamento nella casa. Per alcune, abitare in uno spazio dove non ci sono uomini è inizialmente un tipo di esperienza, che può diventare durevole. La casa diventa allora uno spazio di socializzazione femminista. Le residenti mutano la propria visione della società, costruiscono un discorso sui rapporti di dominio. La sociabilità non mista e i numerosi scambi fra  le residenti contribuiscono alla formazione di un discorso contestatario che afferma la volontà di vivere intensamente, la rimessa in discussione del lavoro, la volontà di consumare in modo diverso o, ancora, di sfuggire alla massificazione e all'omologazione. Le residenti passano quindi dallo statuto di abitanti a quello di militanti.
 
 
 

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