lunedì 15 dicembre 2014

Un femminismo per donne ricche e vincenti. E' davvero auspicabile?


Power feminism versus victim feminism
Uno dei testi fondanti della "critica alla vittima" è Fire with fire di Naomi Wolf, libro che, pubblicato nel 1993, dà avvio al post-femminismo.
Per l'autrice, negli anni Ottanta le donne hanno acquisito, grazie al movimento che le rappresenta, maggiore rilievo, visibilità e considerazione politica, hanno  potuto accedere alla sfera pubblica e ricoprire incarichi manageriali in misura molto più ampia rispetto al passato. La parità fra i sessi potrebbe rivelarsi, dunque, un obiettivo facilmente e rapidamente raggiungibile, se non fosse ostacolato  sia dalla scarsa fiducia delle donne nella potenza dei propri desideri e nella capacità di cogliere le opportunità che il sistema politico ed economico offre a tutti che  dall'esistenza di una corrente del femminismo che, per affrontare le sfide del presente, adotta atteggiamenti inappropriati e controproducenti. Naomi Wolf lo definisce "femminismo vittimista" (victim feminism), cui ne contrappone un altro in grado di esaltare la forza delle donne (power feminism).
Il primo, a suo dire, esorta le donne ad assumere lo status di vittime della violenza, del potere maschile o del patriarcato ed eleva la sofferenza a merito,  ingenerando  un senso di impotenza, di debolezza, di passività, di disconoscimento della propria forza interiore. Idealizza il genere femminile rappresentandolo come ontologicamente incline al pacifismo, alla cura e alla cooperazione, mentre  concepisce gli uomini come naturalmente propensi all'aggressività, alla violenza e alla competitività.  Sul piano dei comportamenti sessuali si rivela moralistico, giudicante e prescrittivo. Celebra l'uguaglianza, l'anonimato, la sorellanza e valuta criticamente, in ragione del suo anticapitalismo, l'affermazione personale e il perseguimento del successo economico, politico e sociale.
Il power feminism presenta caratteri opposti: esalta la forza delle donne e  le incita ad appropriarsi del potere; riconosce che l'aggressività, la violenza, la competitività sono costitutive tanto dell'identità femminile quanto di quella maschile, combatte il sessismo, ma non è misandrico, non esprime giudizi moralistici sulla sessualità, valorizza l'individuo, celebra l'aspirazione e il raggiungimento  del successo e l'acquisizione della ricchezza.
 
Psicologizzazione e responsabilizzazione
Naomi Wolf travolge e amalgama nella sua critica mistificante, confusa e semplicistica femminismo della differenza, radicale, materialista, marxista, anarchico, black in quanto accomunati, a suo parere, dall'identificazione delle donne come vittime, lemma assunto nell'accezione di "oppresse", una realtà che l'autrice nega in quanto disconosce la potente e sistematica influenza che le categorie di genere, classe e razza esercitano sulla collocazione sociale dei soggetti, sul loro accesso alle risorse, sull'attribuzione dei ruoli, sulla divisione del lavoro, sulle discriminazioni, sulla violenza, sulle posizioni gerarchiche, sulle opportunità e sulla gamma di scelte disponibili, nonché sui rapporti di dominio e di sfruttamento esistenti.
La saggista statunitense attribuisce ad un tratto caratteriale, la "forza femminile", il potere taumaturgico di infrangere le barriere  rappresentate da questi sistemi di classificazione e di inquadramento economico e sociale degli individui. Ricorre in tal modo alla psicologizzazione, ossia all'interpretazione della realtà in termini psicologici ed individualistici piuttosto che politici, economici e sociali, "un meccanismo potente per disinnescare la consapevolezza dell'oppressione e la potenziale ribellione", " una tattica di depoliticizzazione a sostegno dello status quo e dei rapporti di potere dominanti", come lo definisce la psicologa sociale e femminista materialista Patrizia Romito.
Inoltre, l'enfatizzazione della forza individuale come elemento in grado di rimuovere tutti gli ostacoli  disloca sulle vittime la responsabilità dell'oppressione che subiscono, un processo questo che si rivela essere una delle principali modalità contemporanee di esercizio del dominio.
In un interessante saggio intitolato Les figures de la domination pubblicato sulla Revue française de sociologie Danilo Martuccelli, docente di sociologia all'Università Paris-Decartes, individua  nel principio di responsabilizzazione uno dei principali dispositivi di iscrizione soggettiva della dominazione. Esso si sostanzia nell'ingiunzione all'individuo a percepirsi, sempre e ovunque, responsabile non solo delle proprie azioni, ma anche degli eventi che gli capitano.  Di qui la sollecitazione a mobilitare le  risorse interiori per agire in modo efficace, per affrontare e risolvere da solo qualsiasi problema (dalla violenza, alla povertà, alla disoccupazione). In caso di fallimento, il soggetto, incitato ad assumersi i rischi della propria condizione, viene colpevolizzato, processo che consente alla società di sottrarsi a qualsiasi tipo di responsabilità nei confronti dei suoi componenti più fragili e che permette, al contempo, agli appartenenti ai ceti dominanti di legittimare sia la propria posizione che le diseguaglianze esistenti. [cfr. anche Caroline Guibet Lafaye, La domination sociale dans le contexte contemporain in Recherches sociologiques et anthropologiques  ] Se, infatti, lo status di un individuo viene attribuito interamente al merito, all'impegno, alla forza interiore, è evidente come la ripartizione disuguale della ricchezza, delle risorse, dei mezzi di produzione finisca per apparire equa.
Quanto alla violenza maschile sulle donne, se si ritiene di poterla sconfiggere proponendo modelli  femminili che incarnano i "valori" della potenza e del successo, ciò significa  non solo che si ignora la dinamica del fenomeno, la composizione sociale e il carattere delle vittime, fra le quali si annoverano anche brillanti e determinate professioniste, ma, soprattutto, che, consapevolmente o meno, si imputa a quelle fra loro che non sono in condizioni di poterne uscire rapidamente  la responsabilità di subirla. Si profila così il rischio di innescare un processo di colpevolizzazione e di stigmatizzazione delle vittime  disprezzate in quanto reputate fragili, impotenti, passive, in una parola, perdenti, mentre il ruolo dei maltrattanti viene occultato.
Un processo già in atto, anzi, dominante, come attesta il fatto che il 65,9% degli oltre  1300 studenti e studentesse delle scuole secondarie di secondo grado cui è stato somministrato  di recente un questionario sulla violenza di genere condivida l'affermazione secondo cui " se una donna viene maltrattata continuamente la colpa è sua perché continua a vivere con quest’uomo".
Le femministe non dovrebbero contrastare queste radicate convinzioni? E pensano di farlo contrapponendo le donne vincenti e di successo a quelle deboli e perdenti?
Ad essere rimossi sono, ad ogni modo, i rapporti sociali di potere, di dominio che si stabiliscono fra  i sessi, così come fra le classi.
Il testo di Naomi Wolf si presta ad ulteriori, rapide considerazioni.
Nessuna pensatrice femminista, che io sappia, interpreta la violenza come un tratto psicologico costitutivo della natura maschile, ma la considera piuttosto come una manifestazione di relazioni imperniate sull'oppressione e sulla dominazione.  Non mi soffermo, però, su questo punto già trattato in modo acuto e pertinente da altri, in particolare da Luisa Betti , da Massimo Lizzi   e dal Ricciocorno
Contrariamente a quanto ritiene Wolf, poi, affrontare il tema della violenza e rappresentarla non contribuisce a riprodurla, ma, al contrario,  a  rivelarla e a denunciarla,  facendola affiorare dagli imperscrutabili recessi della vita privata, per  poterla efficacemente combattere.  O si pensa forse di sconfiggerla occultandola e rimuovendola dal discorso pubblico?
Non si comprende, infine, perché il successo, il conseguimento di uno status sociale elevato, l'arricchimento, l'accesso al potere debbano rappresentare aspirazioni e valori condivisi da tutte le donne.  Perché dovrebbe essere considerato un bene concorrere al funzionamento del modo di produzione capitalista e alla riproduzione dei rapporti di dominio, di oppressione e di sfruttamento che lo caratterizzano?
 
La forza delle oppresse
Non vorrei che dalla lettura dell' articolo si deducesse la mia contrarietà ad evocare la "forza" del femminismo. Al contrario! La ritengo fondamentale, ma la interpreto come il potere che scaturisce dalla consapevolezza della propria condizione di oppresse e dalla volontà di opporvisi e di lottare per la liberazione individuale e collettiva delle donne.
Vorrei pertanto concludere il post con le splendide parole di Christine Delphy, la fondatrice del femminismo materialista:
 
"...Molte donne tengono sulla propria oppressione un discorso teorico. Ma la lotta politica, se non è alimentata dall'esperienza vissuta, quasi carnale, della realtà dell'oppressione, diventa una battaglia filantropica. E quando le donne diventano le filantrope di se stesse e non ricordano più, o vogliono dimenticare, che sono loro le umiliate e offese di cui parlano, perdono la loro forza. Difendere, ritrovare le sorgenti di questa forza è un'altra delle sfide del nuovo secolo per il movimento femminista. E per tutti i movimenti che lottano contro l'oppressione."

mercoledì 8 ottobre 2014

Che fare?


Il 31 ottobre la Fédération des femmes du Québec parteciperà ad una manifestazione contro le politiche di austerità promosse dal governo, in particolare contro la riduzione della spesapubblica, la privatizzazione dei servizi e l'introduzione di ticket per potervi accedere.. A Montréal, il 9 agosto, si è svolta la Marcia delle lesbiche, delle transessuali  e delle femministe contro l'austerità.  Identica manifestazione avevano già promosso le femministe francesi il 9 giugno 2013 (Marche des femmes contre l'austerité)
Il 17 novembre 2013, sempre in Canada, gli "Stati generali dell'azione e dell'analisi femminista", convocati nel 2011, si sono conclusi  con l'adozione di una serie di proposte e di richieste anche di carattere economico tra le quali compaiono l' erogazione  del reddito universale garantito, il  superamento delle disparità salariali tra uomini e donne e della segregazione occupazionale, la rivendicazione dell'universalità ed accessibilità dei servizi pubblici, la redistribuzione della ricchezza, la sperimentazione della socializzazione del lavoro riproduttivo ecc.
Nel 2012 in Francia e in Belgio femministe afferenti a differenti associazioni presentarono una petizione pubblica contro il  Trattato su stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria (il Fiscal Compact)
La Fédération des femmes du Québec  ha sottoscritto, assieme a molte altre organizzazioni, un documento fermamente contrario alla stipula del trattato di libero scambio tra Canada ed Unione Europea (Accordo economico e commerciale globale: AÉCG), i cui negoziati conclusivi sono iniziati ad Ottawa il 26 settembre.
Le femministe hanno partecipato al movimento Occupy Wall Street e  a quello degli Indignados in Spagna.
Potrei elencare altre iniziative, ma credo di aver già dimostrato l'impegno del femminismo  straniero contro il neoliberismo.
E in Italia?
Le elaborazioni teoriche e le analisi del femminismo italiano sull'economia e sul lavoro sono eccellenti, estremamente intelligenti ed acute. Si moltiplicano, poi, i convegni e i seminari sulla crisi, le cui ripercussioni sulle donne sono particolarmente acute a causa della riduzione del welfare state e del maggior tasso di disoccupazione, di inattività e di precarietà femminile. Sarebbe importante diffondere on line gli atti prodotti e gli interventi pronunciati nel corso di questi convegni.
Quella che manca, a mio parere, è, però, l'espressione pubblica, da parte del femminismo italiano, di una posizione condivisa sui provvedimenti del governo Renzi e l'organizzazione di forme di mobilitazione e di resistenza contro il Jobs Act e, in genere, contro le politiche di austerità.
Una simile presa di posizione è possibile o non esistono punti di vista concordanti su queste questioni? Cosa possiamo fare per contrastare da femministe le politiche neoliberiste italiane ed europee? 
Sono domande ingenue, me ne rendo conto, che scaturiscono da un profondo senso di impotenza e da un forte sentimento di inquietudine. Non di meno, mi sembra utile porle.

mercoledì 1 ottobre 2014

Un femminismo ancella del patriarcato, innocuo e depoliticizzato? Esiste? A chi e a cosa serve?




Il concetto di scelta nei blog femministi stranieri

Femminismo come libertà individuale di scelta versus femminismo come movimento di liberazione collettiva delle donne dall'oppressione patriarcale
L'espressione "femminismo ancella del patriarcato" è solo un ossimoro, un paradosso? Si può parlare di depoliticizzazione di una frazione piuttosto consistente del femminismo contemporaneo e la si può connettere alla rilevanza assunta in esso dalla nozione di "libertà di scelta"?
Per rispondere a questi quesiti, vi esporrò il contenuto della bella tesi di dottorato  di Geneviève Szczepanik. In "La mobilisation de la notion de choix dans les discours et débats féministes contemporains: une analyse de blogues féministes (L'impiego della nozione di scelta nei discorsi e nei dibattiti femministi contemporanei: un'analisi di alcuni blog femministi), l'autrice ha esaminato minuziosamente 2246 articoli e relativi commenti pubblicati su 33 blog femministi statunitensi, inglesi, australiani, canadesi e francesi.
La sua analisi le ha consentito di identificare due opposte concezioni del femminismo, inteso rispettivamente come valorizzazione della libertà di scelta o come movimento di liberazione collettiva delle donne.
Nel primo caso le decisioni individuali rappresentano la ragion d'essere e l'emblema del femminismo che ha dischiuso alle donne la possibilità stessa di assumerle, dotandole del potere di autodeterminazione. A tutte è permesso, secondo questa concezione, effettuare scelte affrancate da qualsiasi vincolo economico, politico, sociale, culturale, un'idea che si fonda sul presupposto dell'ormai acquisita uguaglianza fra gli esseri umani. Tutte le decisioni, purché frutto di accurata ponderazione, sono ritenute non solo equivalenti ed indiscutibili, ma schiettamente femministe, anche nel caso in cui comportino l'accettazione dell'ordine patriarcale, dei ruoli tradizionalmente assegnati alle donne, della subordinazione ad un uomo. E' il processo dell'effettuazione di una scelta purchessia, infatti, a costituire l'essenza del femminismo. Il fatto stesso  di scegliere una determinata condizione di vita preserva le donne dallo sfruttamento e dall'oppressione maschile, poiché non esistono realtà oggettive, ma la natura di una situazione viene definita dalla percezione e dalla decisione individuale. La glorificazione di tutte le scelte si estende a quelle che si dispiegano entro un ventaglio molto ristretto di opzioni e implica l'attribuzione alle donne della responsabilità esclusiva di averle assunte. Si ritiene, d'altra parte, che nessuna decisione individuale possa ripercuotersi sulla vita delle altre e perpetuare l'ordine patriarcale. Le scelte vengono infatti totalmente svincolate dal contesto.
Nel secondo caso il femminismo è concepito come un movimento collettivo che mira a liberare le donne dall'oppressione del sistema patriarcale, che, assieme ad altre forme di dominio (capitalismo, razzismo ecc.), mantiene intatta la sua forza e riduce drasticamente la possibilità di compiere scelte libere. Le decisioni delle donne, peraltro, possono contribuire alla riproduzione dei rapporti di potere e delle strutture patriarcali, esercitando in tal caso un impatto negativo sulla vita delle altre. Tali scelte non possono essere definite femministe. Questo giudizio non implica alcuna stigmatizzazione e condanna delle donne che le compiono, ma comporta piuttosto una critica severa delle strutture patriarcali e degli altri rapporti di potere, una critica cui il femminismo non può sottrarsi senza rinunciare al proprio potenziale trasformativo, o, ancor meglio, sovversivo.
 
Quali conseguenze comporta per il femminismo l'enfatizzazione del concetto della libertà di scelta?
Numerose blogger e commentatrici collocano la libertà di scelta al centro delle loro analisi, riproponendola reiteratamente  in tutti i dibattiti.
Diverse studiose (Condit, Snider, McCarver) sostengono che la rilevanza del concetto di scelta derivi dal fatto di rappresentare nelle società occidentali un potente "ideogramma" (ideograph), vocabolo che assume qui il significato di traduzione di un'ideologia in slogan e nozioni in grado di plasmare le convinzioni degli individui, di orientarne e legittimarne le azioni. Per  Virginia McCarver (1) l'ideogramma "scelta" attinge la sua forza  dal principio dell'autodeterminazione, dell'agency, del potere di ogni individuo di forgiare il proprio destino, tanto caro alle società occidentali contemporanee.
La costante valorizzazione delle scelte individuali comporta la depoliticizzazione dell'analisi femminista, ossia la rimozione, dalla riflessione, dei rapporti sociali tra i sessi, a tutto vantaggio di una concezione individualista dell'esistenza delle donne e implica il rifiuto di un femminismo critico che persegua l'obiettivo di abbattere l'ordine patriarcale.   
Nella prospettiva individualista, non si tratta, infatti, di promuovere un impegno strategico volto alla liberazione collettiva delle donne, ma di difendere l'identità e le scelte personali. Numerose blogger e commentatrici rivendicano così la libertà di scegliere pratiche associate all'oppressione e alla sottomissione e di definirle femministe.
Michelle Lazar (2) intravede nelle trasformazioni contemporanee la transizione da un "femminismo del noi" a un "femminismo dell'io", nel quale la ricerca della libertà individuale è assai più rilevante di qualsiasi considerazione politica collettiva e di qualsiasi progetto di trasformazione sociale.
Se l'analisi femminista ha a lungo sottolineato il carattere politico del vissuto personale, mostrando come determinate situazioni siano modellate dalle strutture sociali, i discorsi femministi incentrati sul concetto di scelta si fondano piuttosto sull'idea che il politico sia   personale, ovverosia che ogni scelta sia incontestabilmente femminista se chi la compie si autodefinisce tale.
L'inclinazione ad enfatizzare la propria identità femminista, quali che siano le decisioni effettuate, è stata criticata da bell hooks (3) che ritiene che questa propensione provochi la focalizzazione dell'attenzione sul proprio io -  sulla propria individualità e sulle proprie azioni - anziché sul femminismo e sulle battaglie da intraprendere. Per questo hooks propone di abbandonare l'uso dell'espressione "Sono una femminista"  per affermare piuttosto "Sostengo il femminismo", frase che consente di rimarcare l'obiettivo centrale dell'impegno femminista: la lotta collettiva contro l'oppressione delle donne.
E' interessante constatare come le prospettive femministe incentrate sulla libertà di scelta presentino affinità con la retorica antifemminista descritta da Francine Descarries (4). Tale retorica è imperniata sul mito dell'ormai acquisita parità di genere e dell'avvenuta rimozione delle discriminazioni che renderebbe inutile la prosecuzione della lotta collettiva. Il femminismo inteso come movimento di liberazione delle donne si starebbe spingendo troppo lontano, sarebbe opprimente e normativo, sovradeterminante, negherebbe l'agency delle donne e sarebbe ormai superato: discorsi questi che accomunano antifemminismo e femminismo della scelta.
 
Il feticismo della scelta
Quest'ultimo genera una sorta di feticismo, in senso antropologico e in senso marxista, della decisione individuale che induce a respingere le analisi che tentano di inserirla in un contesto economico, sociale, politico e culturale, per privilegiare una riflessione imperniata sul  suo presunto carattere autodeterminato ed indipendente dalle circostanze.
Ecco dunque la trasmutazione della scelta in un feticcio inteso in senso antropologico come oggetto di culto, sacro e, soprattutto, incontestabile. Interpretata al contempo come la ragion d'essere e il prodotto del femminismo, la scelta basta a conferire legittimità a qualsiasi situazione e ad infirmare la validità di qualsiasi preoccupazione relativa ad una condizione ingiusta. La perentoria convinzione che ogni scelta sia autodeterminata inibisce la riflessione sul grado effettivo di libertà di cui dispongono le donne. Come se la scelta fosse una sorta di amuleto in grado di respingere e di far dileguare magicamente  le costrizioni e i condizionamenti.
Per Philip Wilkin Jenks (5), così come per Sonia Corrêa e Rebecca Lynn Reichmann (6), nel reiterato uso di questo concetto sarebbe ravvisabile anche una manifestazione del feticismo inteso in senso marxista. Per il filosofo di Treviri nel modo di produzione capitalista i rapporti sociali appaiono mimetizzati in rapporti fra le cose. Ciò nasconde l'intima essenza della relazione, perché gli agenti sociali hanno conoscenza immediata solo delle apparenze (ad esempio il prezzo delle merci o il salario quale non meglio identificato equivalente delle prestazioni lavorative)  e non riescono a percepire la realtà che esse celano. Il prodotto del lavoro umano, la merce, assume in apparenza un’esistenza indipendente che occulta i rapporti sociali esistenti tra gli uomini; si comporta cioè come  un "feticcio ideologico" cui si attribuisce una vita autonoma. Così, le merci, da pure e semplici cose, prodotto del lavoro umano, assurgono al ruolo di rapporti sociali, e, nello stesso modo, anche questi ultimi assumono l’aspetto, nello scambio, di rapporti tra cose. In altri termini, gli individui che acquistano un oggetto di consumo non lo percepiscono come il prodotto del lavoro umano e dei rapporti sociali di produzione. Esso sembra esistere senza essere stato fabbricato. Questo è il significato del concetto di feticismo della merce in Marx.
Corrêa e Reichmann si ispirano ad esso per elaborare la nozione di feticismo della scelta. Quest'ultimo induce le donne a percepirsi come consumatrici che possono effettuare scelte senza mediazioni sociali, in modo totalmente libero ed autodeterminato. In questa prospettiva, le decisioni sembrano  essere assunte al di fuori del contesto sociale ed economico che le ha prodotte, ossia sembrano esistere indipendentemente dall'ambiente, dalle strutture che lo plasmano, dalle norme che lo regolano. Il feticismo della scelta, osserva Jenks, cela, cioè, il modo in cui il soggetto è socialmente, politicamente, economicamente e culturalmente costruito.
 
La legittimazione dell'iniquità
Clare Chambers (7) nota che il concetto di scelta ha il potere di tramutare una situazione iniqua in   una condizione apparentemente giusta: affermare che essa rappresenta il prodotto di una libera scelta serve a conferirle, infatti, una parvenza di giustizia. La retorica liberista della scelta può, anzi, consentire di mettere fra parentesi i concetti di disuguaglianza e di ingiustizia. Una discriminazione (ad esempio la ripartizione del lavoro domestico e di cura) che si sorregga su una decisione individuale cessa così di essere considerata ingiusta. In altri termini, il fatto che una diseguaglianza sia considerata il frutto di una scelta della singola donna permette di legittimarne l'esistenza. Di conseguenza, le discriminazioni di genere finiscono per essere concepite come  normali ed inevitabili.
La retorica della scelta produce quindi l'effetto di legittimare l'ordine sociale esistente, di sostenere lo statu quo e di occultare i limiti e i condizionamenti dell'azione.
L'enfatizzazione della libertà individuale di scelta, ovviamente, implica che la donna che assume una decisione sia ritenuta la sola responsabile degli effetti che ne derivano. La commentatrice di un blog analizzato dall'autrice della tesi oggetto dell'articolo, ad esempio, accusa una prostituta di crogiolarsi nel ruolo di vittima passiva e le consiglia semplicemente di "scegliere un altro lavoro" se si sente oppressa. Tale risposta rivela la difficoltà di comprendere che l'oppressione delle donne si dispiega non solo sul piano simbolico, ma anche su quello fisico e materiale, le tre dimensioni indissociabili del patriarcato, e dà l'impressione che per sconfiggerla sia sempre possibile compiere una scelta diversa o sia sufficiente ridefinirla, assegnarle un differente significato. In quest'ottica l'oppressione viene concepita come un fatto meramente individuale, la cui sussistenza è interamente attribuita alla responsabilità della singola donna.
 
Conclusione
Se al concetto di scelta viene dunque conferito un carattere politico, tanto nel discorso sociale che in quello femminista, l'atto di decidere viene  invece depoliticizzato, in quanto pensato come individuale, isolato dal contesto sociale e affrancato da qualsiasi forma di condizionamento. L'enfatizzazione della nozione della libertà di scelta rende ardua la comprensione dell'oppressione delle donne e delle pressioni che subiscono, sia perché non ne riesce ad individuare le basi materiali e fisiche, sia perché implica il rifiuto di un'analisi condotta in termini di rapporti sociali tra i generi.
I discorsi femministi incentrati sul concetto di scelta lasciano intendere che tutte le donne siano  totalmente libere e uguali, ma implicitamente fanno riferimento soltanto  a quelle delle classi sociali abbienti, economicamente, politicamente e socialmente in grado di effettuare scelte che si dispiegano entro un ampio ventaglio di possibili opzioni. In tal modo non sono soltanto le analisi relative ai rapporti tra i generi ad essere oscurate, ma anche le indagini che potrebbero chiarire la dinamica di altri rapporti sociali, nonché la loro intersezione.
Il femminismo così concepito rinuncia, in conclusione, ad ogni potenziale trasformativo e perde la propria originaria carica sovversiva.
Dal momento che, in sostanza, si astiene dalla critica al sistema patriarcale, lo si può effettivamente definire, a mio parere, ancella del patriarcato.
 
Note:
1) Virginia McCarver, « The Rhetoric of Choice and 21st-Century Feminism: Online Conversations About Work, Family, and Sarah Palin ». Women’s Studies in Communication, vol. 34, no 1, 2011, p. 2041.
2), Michelle M. Lazar, « Feminist Critical Discourse Analysis: Articulating a Feminist Discourse Praxis ». Critical Discourse Studies, vol. 4, no 2, 2007 p. 141164.
3) bell hooks, Feminist Theory: From Margin to Center, Boston , South End Press, 1984.
4) Francine Descarries, « L’antiféminisme « ordinaire » ». Recherches féministes, vol. 18, no 2, 2005, p. 137151.
5) Philip Wilkin Jenks, « Foucault, Arendt, and the Norplant Condition in Liberal America: New Reproductive Technologies, Public Bodies, and Disciplinary Liberalism ». Tesi di dottorato, Lexington (Kentucky), University of Kentucky, 2000
6) Sonia Corrêa e Rebecca Lynn Reichmann, Population and Reproductive Rights: Feminist Perspectives from the South. Londra, Zed Books, 1994.
7) Clare Chambers, Sex, Culture, and Justice: The Limits of Choice, Pennsylvania State University Press, 2007.
 
Qui trovate la tesi di dottorato di Geneviève Szczepanik:

venerdì 26 settembre 2014

La scuola come agenzia di socializzazione all'ordine gerarchico, alla violenza e alle norme di genere?


Pratiques genrées et violences entre pairs (Pratiche genderizzate e violenze tra i pari) è un corposo rapporto  (588 pagine), composto da numerosi saggi che sarebbe interessante analizzare distintamente, sulla presenza delle violenze di genere nella scuola secondaria francese di primo e di secondo grado. La ricerca illustra le dinamiche di riproduzione negli istituti di istruzione delle diseguaglianze tra i sessi, le modalità di attribuzione ad essi di ruoli rigidamente differenziati, l'onnipresenza e l'incontrastata supremazia dell'ordine simbolico e materiale patriarcale e gli effetti del controllo esercitato dagli studenti sulla condotta sessuale delle compagne di classe. La scuola si prospetta essere una delle principali agenzie di socializzazione alle norme di genere e di riproduzione delle gerarchie ed è in questo contesto che si inseriscono le violenze tra pari.
Il rapporto francese, le cui considerazioni e conclusioni si possono agevolmente trasporre alla situazione italiana, è stato elaborato sulla base delle interviste a 39 dirigenti scolastici e, soprattutto, sulla base dell'osservazione etnografica, durata un anno, delle interazioni tra studenti e studentesse e fra alunni e docenti in cinque istituti di istruzione: una scuola secondaria di primo grado (scuola media, collège in francese) situata in un quartiere periferico povero, un'altra e un liceo privato collocati in centro città, frequentati da alunni di diversa estrazione sociale, un istituto professionale per operatori meccanici posto in un quartiere decentrato definito dalle autorità "difficile" e infine un liceo pubblico d'élite.
 
Violenze, gerarchie e norme di genere
Le violenze, presenti in tutti gli istituti scolastici sia pure con frequenza e modalità differenti, assumono un marcato carattere di genere e si articolano in un ampio ventaglio di atti di crescente gravità: insulti sessisti, palpeggiamenti, aggressioni fisiche, stupri, questi ultimi, per fortuna, molto rari. Si tratta di violenze finalizzate all'appropriazione del corpo delle ragazze e al controllo della loro sessualità.
Le ingiurie, diffusissime, prendono di mira i caratteri solitamente collegati alla femminilità, sia quando sono dirette contro alcune ragazze, designate "puttane" tanto dai compagni quanto dalle compagne di classe, che quando sono rivolte a certi ragazzi, definiti, con tono sprezzante, "froci" (pédés), in quanto  percepiti come "effeminati". L'omofobia si configura, cioè, come una sorta di epifenomeno dell'inferiorizzazione del genere femminile e degli attributi cui è tradizionalmente associato.
La categoria del "genere" costituisce il modello di relazioni sociali fra i sessi incentrate sulla valorizzazione della mascolinità egemonica. Il sistema patriarcale, che dispone uomini e donne in ordine gerarchico, esalta il machismo e impone la norma eterosessuale, viene riprodotto a scuola    non solo nelle interazioni fra gli alunni, ma anche nelle relazioni tra studenti ed insegnanti.
In tre degli istituti scolastici oggetto della ricerca (quello professionale e le due scuole secondarie di primo grado) la violenza fisica si manifesta quotidianamente. In essi i ragazzi occupano il centro della scena e i loro rapporti si conformano al modello della mascolinità egemonica, fondato sulla sfida, sul disprezzo del pericolo, del dolore proprio e di quello altrui e sulla "parata virile" che consiste nel recitare la parte dei duri in un contesto marcato dal dominio e dalla rivalità per conquistare la leadership.
Un altro modo di affermare atteggiamenti machi consiste nell'inferiorizzare gli altri attraverso l'adozione di posture corporee che denotano disprezzo e attraverso l'impiego di un  linguaggio ingiurioso. Per questo motivo le ragazze vengono ridotte ad oggetti sessuali attraverso il ricorso ad epiteti sessisti. Gli altri studenti possono essere inferiorizzati anche attraverso l'enfatizzazione dell'appartenenza dei leader ad una classe sociale superiore o attraverso la manifestazione di atteggiamenti razzisti.
Negli istituti scolastici dove vengono commessi quasi ogni giorno atti di violenza, insegnanti e studenti sono impegnati in una costante attività di interpretazione, poiché lo stesso gesto, la stessa parola, a seconda del contesto, del rapporto tra i protagonisti, dell'intonazione, può configurarsi come aggressione o, al contrario, esprimere affetto ed intimità. Questa perenne necessità di decodificare ogni vocabolo e ogni atto produce una palpabile e costante tensione. Nessun'azione è neutra e trasparente (dare la precedenza e lasciar passare qualcuno nei corridoi, guardare qualcuno negli occhi). Ogni interazione costituisce, infatti, una manifestazione di dominio o di subordinazione che si iscrive in un ordine gerarchico instabile nel quale la posizione che ciascuno occupa nel gruppo, sempre passibile di avanzamento o di declassamento, è negoziata in permanenza.
Le violenze fisiche tra studentesse sono molto rare, ma i loro rapporti, come quelli fra studenti, sono regolati dal principio gerarchico. La differenza rispetto ai ragazzi consiste nel fatto che la loro collocazione gerarchica non dipende soltanto dall'audacia e dalla risolutezza, ma anche dalle valutazioni ed autovalutazioni costanti dell'abbigliamento, dell'acconciatura, del trucco. Le studentesse cercano incessantemente e con un'implacabile severità di esercitare un fascino seduttivo che non oltrepassi però un sottile limite. Il rischio è, infatti, quello di essere giudicate da compagni e compagne "puttane", anziché "sexy". La pratica della seduzione, conforme ai ruoli di genere e alle aspettative sociali, espresse anche dai dirigenti scolastici che operano una distinzione tra le ragazze fondata sulla loro presunta o reale disponibilità sessuale, mira a conquistare l'apprezzamento dei ragazzi e sfocia in una rivalità fra studentesse, che impedisce loro di essere solidali e di costituirsi come gruppo coeso.
Le violenze fisiche contro le ragazze perseguono l'obiettivo di rimetterle al loro posto. Se il gruppo degli studenti, così come quello delle studentesse, presenta infatti al proprio interno un'organizzazione gerarchica, resta il fatto che il primo, nel suo complesso, esercita e pretende di mantenere il dominio sul secondo. Quando una ragazza tenta di distinguersi e di imporsi su uno o più ragazzi, viene considerata troppo audace e la si richiama immediatamente all'ordine. "Pourquoi tu fais ta belle?", le si chiede con aria di rimprovero. "Faire sa belle" significa attribuirsi un'importanza e un potere superiore a quello che spetta ad una ragazza.  Si tratta di un comportamento valutato come grave trasgressione dell'ordine naturale delle cose. Solo eccezionalmente una ragazza riesce ad emergere e ad imporsi sul gruppo dei ragazzi. Ciò avviene quando è in grado di assumere attributi ipervirili e, contemporaneamente, di apparire particolarmente sexy, ma non fino al punto da poter essere giudicata una "poco di buono".
Nell'istituto professionale collocato in un quartiere "difficile" il principio gerarchico viene applicato con particolare rigidità, quasi che in esso gli studenti individuassero la possibilità di un riscatto e l'occasione per vedersi riconosciuto quel valore sociale e narcisistico che è loro negato dall'ambiente circostante che offre solo precarietà e disoccupazione. Gli insegnanti dell'istituto adottano gli stessi comportamenti e codici espressivi degli studenti: gridano per farsi ascoltare, urtano gli alunni...
Negli istituti scolastici nei quali regna un'atmosfera più tranquilla, meno caotica,  la violenza di genere assume altre forme, in particolare nel liceo d'élite. Qui non si odono insulti sessisti. Le ingiurie sono formulate secondo un registro ironico-sarcastico e attengono agli insuccessi scolastici e sociali. Gli studenti e le studentesse si valutano reciprocamente in base al criterio dell'appartenenza o meno alla classe sociale dominante, che si manifesta anche nella distinzione,  nella raffinatezza dei gusti e nella conformità a determinati canoni estetici, economici, intellettuali e comportamentali. La sanzione peggiore consiste nell'esclusione dal gruppo e nell'invisibilizzazione degli alunni meno abbienti e privi di stile.
Poiché la scuola rappresenta un universo chiuso ed è frequentata da adolescenti che stanno definendo la propria identità, vi si osserva con maggior chiarezza il funzionamento del sistema eteronormativo e l'assegnazione di ruoli, funzioni, comportamenti diversi a seconda del genere cui si appartiene. Negli istituti i cui iscritti appartengono ai ceti popolari  vige un modello di virilità particolarmente costrittivo e un ideale di femminilità caratterizzato da tre ingiunzioni contraddittorie: essere caste, morigerate per godere di buona reputazione, essere sexy, ipersessualizzate, seducenti e, contemporaneamente, saper evitare lo stigma della "puttana".
Nelle scuole frequentate da studenti appartenenti alle classi dominanti, il sistema eteronormativo opera in modo più discreto. Esso, in ogni caso, reprime severamente tutto ciò che turba il binarismo. Di qui la diffusione nelle scuole dell'omofobia e della transfobia, nonché la stigmatizzazione dei tratti ritenuti femminili presenti nei ragazzi e di quelli maschili presenti nelle ragazze.
 
Le lezioni
Il clima negli istituti scolastici oggetto della ricerca è ansiogeno.
Meno della metà delle lezioni si svolgono in un'atmosfera centrata sul lavoro, le altre si snodano fra l'indifferenza, la noia e, più raramente, il brusio che può trasformarsi in caos.
Il comportamento degli alunni esprime rifiuto, aperto conflitto, ostilità nei confronti degli insegnanti e dell'istituzione scolastica.
Gli studenti devono affrontare due contraddizioni. Da un lato, per concentrarsi ed ascoltare la lezione, devono isolarsi dal gruppo e ciò pare loro impossibile: avvertono, infatti, l'urgenza di dirsi cose che ritengono importanti e che consentono loro di tessere e mantenere relazioni significative ed ottenere il riconoscimento dei compagni di classe. Dall'altro lato, un coinvolgimento eccessivo espone al rischio di perdere la faccia e di subire un declassamento, sia perché si possono commettere errori nell'esecuzione dei compiti assegnati, sia perché, mostrando interesse, si dà prova di sottomissione all'insegnante e all'istituzione scolastica (L''ideale è il conseguimento di risultati brillanti, dando l'impressione di non impegnarsi troppo). La questione si complica per le ragazze che, se palesano interesse e partecipazione e ottengono buoni voti, vengono accusate di mettersi in mostra.
Nel caso in cui le lezioni si svolgano in un'atmosfera chiassosa, molti professori non si accorgono o fingono di non accorgersi delle trasgressioni studentesche delle norme scolastiche, comportamento che viene interpretato dagli alunni come una forma di subordinazione, come una dichiarazione di impotenza e di inferiorità. Questi insegnanti oscillano da una postura all'altra, assumendo talvolta un atteggiamento amichevole, bonario, confidenziale, rivendicando talaltra un'autorità che non viene loro riconosciuta.
Riescono a catturare l'attenzione degli alunni o, quanto meno a ottenere il silenzio, invece, i docenti che adottano due differenti modalità di comportamento. Alcuni si mostrano credibili ed autorevoli mostrando per le discipline che insegnano una passione e un coinvolgimento che colpisce gli studenti, suscitando entusiasmo in almeno alcuni di loro. Altri, invece,  si inseriscono nell'ordine gerarchico, occupando la posizione più elevata e affermano il loro potere adottando un atteggiamento autoritario.
In sostanza, le interazioni tra insegnanti e studenti riproducono e confermano, agli occhi di questi ultimi, la validità e la solidità del sistema gerarchico che regola le relazioni tra pari.
 
Gli adulti e l'eteronormatività
L'istituzione scolastica  è una delle principali agenzie di socializzazione alle norme di genere trasmesse, spesso inconsapevolmente, dal personale educativo. I dirigenti scolastici intervistati dalle autrici della ricerca ritengono ad esempio che una dominazione maschile discreta e l'accettazione da parte delle ragazze di un ruolo complementare, se non ancillare, nei confronti dei  ragazzi garantisca il mantenimento della pace all'interno dell'istituto. Inoltre, attribuiscono generalmente gli atti di violenza alle condizioni sociali  e culturali degli alunni, piuttosto che ai rapporti di potere che regnano fra i generi.
Il personale educativo nel suo complesso, sia pure inconsapevolmente, concorre al mantenimento dei comportamenti machisti degli studenti attraverso la banalizzazione e la minimizzazione costante delle violenze e delle costrizioni da essi esercitate sulle ragazze. Gli insegnanti, inoltre, condividono gli stessi stereotipi di genere degli studenti e, in particolare, attribuiscono alle studentesse la responsabilità di eccitare, sedurre, provocare i compagni e, dunque, indirettamente, anche quella di cagionare le violenze che subiscono.
 
Qualche consiglio
Si tratta, dunque, in primo luogo, per i docenti di acquisire consapevolezza delle dinamiche di genere che si innescano a scuola e di porre fine alla tendenza a sminuire l'importanza delle violenze. E' necessario che gli studenti ne comprendano la gravità, la crudeltà e l'illegittimità.
La sezione conclusiva della ricerca offre interessanti consigli ai docenti. Mi limiterò a riportare una considerazione di Annie Léchenet. Questa insegnante, formatrice e ricercatrice si chiede se sia la costruzione della mascolinità ad ingiungere ai ragazzi di imporre il proprio dominio o se non sia, al contrario, l'esistenza della gerarchia  ad indurli ad utilizzare uno dei più efficaci strumenti di dominio che esista: il genere, che costituirebbe dunque una sorta di epifenomeno. In quest'ultimo caso converrebbe configurare la scuola come uno spazio che educhi non solo al superamento degli stereotipi di genere, ma anche all'abbattimento delle gerarchie, all'annullamento della preoccupazione di esercitare il dominio.
Quanto ai preconcetti connessi al genere, la scuola dovrebbe favorire l'espressione di comportamenti femminili attivi, determinati, liberi e disincentivare la manifestazione da parte dei ragazzi di atteggiamenti da machi che negano la paura, le emozioni e il bisogno degli altri e che individuano nella violenza l'unica modalità di risoluzione dei conflitti. 
Per quanto riguarda, invece, il superamento del modello sociale fondato sulla gerarchia, Annie Léchenet propone di  conformare l'insegnamento ai principi della pedagogia libertaria, che favorisce la partecipazione attiva ed egalitaria di tutti gli studenti e le studentesse al processo educativo. Si dovrebbe facilitare la presa di parola di tutti gli alunni e creare un clima propizio all'apprendimento imperniato su un modello cooperativo, anziché competitivo.
Si tratta - va detto -, riferendoci a quel che avviene in Italia, di pratiche educative marcatamente anticonformiste e controcorrente non solo rispetto a quelle adottate generalmente nelle scuole, ma soprattutto rispetto al modello di istruzione delineato da Matteo Renzi che si propone di "formare soggettività flessibili conformi alle regole del mercato" e, dunque, competitive e di legittimare le diseguaglianze, anziché combatterle, razionalizzando l'esclusione, come osserva giustamente Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica all'Università Federico II di Napoli
Si tratta inoltre, quanto a stereotipi di genere, di modelli pedagogici decisamente antitetici a quelli proposti a Trento dalla "Scuola delle principesse"(Esiste pure l'Accademia per la formazione delle suddette). Le aspiranti principesse saranno educate alle buone maniere nel  servire e sorbire il té (vedi il corso di merenda chic) e nel salire e scendere le scale, apprenderanno la corretta ed elegante dizione, la danza, il canto in italiano e addirittura in inglese, la calligrafia. (Non sono previste, invece, lezioni di digitazione principesca sulle pink tastiere di  pink pc, forse perché troppo banali ). Al termine dei corsi le bambine non avranno appreso nulla di particolarmente utile ad una prosaica esistenza, per usare le parole ironiche della fondatrice della scuola, ma sapranno servire il té con una grazia impareggiabile: competenza davvero indispensabile e, soprattutto, giovevole al superamento degli stereotipi di genere.  
 

mercoledì 10 settembre 2014

Genealogie del presente


Genealogie del presente, pubblicato da Mimesis, è un lessico politico concepito, come chiarisce la magnifica introduzione di Lorenzo Coccoli, Marco Tabacchini e Federico Zappino, come strumento  di lotta, oltre che di decodificazione della realtà, e come manifestazione di un pensiero il cui potenziale trasformativo si traduca nel dissolvimento delle regole consolidate di comportamento e nell'apertura di nuovi ambiti di conflitto e di inediti orizzonti di senso. Per questo il libro si propone di evidenziare, nell'esposizione dei concetti, di cui traccia la genealogia, intesa in senso foucaultiano, ciò che si oppone all'ordine del discorso e che deborda dalla semantica ufficiale, sia allo scopo di disvelare i rapporti di potere e la retorica del dominio che presiede all'uso di determinate parole sia al fine, contrario, di estrarre da certi lemmi significati alternativi, conflittuali e sovversivi, che servano a performare una realtà radicalmente altra nella quale possa svolgersi una vita buona.
Non è difficile individuare alcuni caratteri comuni a tutti i saggi che compongono il libro: l'esaltazione della dimensione conflittuale e della carica critica dei concetti politici analizzati, occultata e demonizzata nel discorso egemonizzato dal potere economico e politico, cui siamo invitati a sottrarci, il disvelamento della retorica della dominazione che presiede all'uso di certi vocaboli e alla selezione strategica dei loro significati meglio corrispondenti al mantenimento dello status quo, la valorizzazione della prassi come costitutiva di realtà (il movimento, ad esempio) e nozioni (l'uguaglianza), la celebrazione della mobilitazione permanente e della resistenza, concepita come fuga dalla cattura dei dispositivi di comando.
Genealogie del presente, infatti, come dichiarano gli autori dell'introduzione, si prefigge l'obiettivo di spostare l'accento dalla dimensione semantica delle parole a quella performativa al fine di evitare l'ipostatizzazione dei concetti e, al contempo, di dispiegarne le potenzialità trasformative.
Come acutamente rilevato da Anna Simone,  questo lessico non include i lemmi "capitalismo" e "neoliberismo" perché si focalizza sui loro effetti e su alcune forme di resistenza (Bene comune, Movimento e Eguaglianza). A proposito di queste ultime, dal libro è stata esclusa anche la voce "lotta di classe" per la sua forclusione dal discorso pubblico, ci spiegano gli autori dell'introduzione, e per il probabile riassorbimento nei lemmi Beni comuni e Movimento. Tuttavia, come ho già osservato, il conflitto affiora e viene esaltato nella trattazione della maggior parte delle voci.
L'esposizione dei concetti di crisi, costituzione, democrazia, eccellenza, governabilità, legalità, popolo, povertà, precarietà, responsabilità, sacrificio, società, trasparenza consente di illustrare gli effetti del neoliberismo. Crisi è, ovviamente, termine ricorrente nella trattazione di queste voci e  viene giustamente interpretata, sulla scia di Marx ed Engels, come la normale modalità di funzionamento ciclico del modo di produzione capitalista che, nella sua forma neoliberista, osserva Federico Zappino, dà origine ad una soggettività produttiva, la cui vita è interamente assorbita dal lavoro, e debitrice, inserita in molteplici relazioni debitore/creditore, la cui perpetuazione è connessa all'incorporazione melanconica di un paralizzante senso del peccato, della colpa e del dovere, che affonda le sue radici nella morale cristiana.
Zappino individua una via di fuga a questa opprimente situazione nella riscoperta di un significato diverso di crisi: quello, attinto dalla tradizione storiografica e filosofica greca, di giudizio, ossia di valutazione critica, la cui applicazione potrà dischiudere prospettive inedite e condurci a rifiutare di concorrere alla perpetuazione  di soggettività produttive  e debitrici.
Prospettive inedite Adalgiso Amendola intravede nella crisi della costituzione, strumento la cui funzione nell'età moderna è consistita nell'operare un'impossibile mediazione fra il movimento centrifugo dei soggetti e la costruzione unitaria dello Stato. L'attuale processo di decostituzionalizzazione  lascia aperto il campo ad esperimenti istituenti che si collochino al di là della dicotomia stato/società civile, pubblico/privato, producendo la progressiva emersione di un nuovo "diritto del comune". Per Ugo Mattei e Michele Spanò, invece, la forma costituzionale rimane l'unico dispositivo ancor oggi disponibile per concepire e attuare la trasformazione della realtà. Dalla crisi della Costituzione si esce, osservano gli autori, attraverso un nuovo processo costituente, europeo e postcoloniale, che fondi il "diritto del comune".
Ai beni comuni è consacrato il saggio di Maria Rosaria Marella  che li distingue dal bene comune inteso come ciò che giova a una comunità pacificata, omogenea e coesa. I beni comuni, invece, risorse sottratte allo spossessamento del comune, gestite in modo partecipato da una determinata collettività, rappresentano una potenziale critica al sistema e incorporano una dimensione conflittuale come qualsiasi reale istanza egalitaria.
Anche Cristina Morini, nel suo saggio sulla precarietà, invita a superare la logica del welfare e del workfare per istituire il commonfare, fondato appunto sulla cooperazione sociale nella gestione dei beni comuni (acqua, aria, cibo, ambiente, conoscenza, linguaggio, socialità). L'autrice, che  giustamente concepisce la precarietà come condizione al contempo lavorativa ed esistenziale, strutturale, disciplinare e generalizzata, individua la possibilità di uscire da questa situazione nel conflitto contro il capitale, ossia nella riappropriazione del reddito da realizzare attraverso l'insolvenza, l'introduzione di un reddito di esistenza, la condivisione di saperi (eliminazione della proprietà intellettuale) e nella sperimentazione di forme di autorganizzazione e di autogestione. Sono d'accordo con lei, ovviamente.
Potrei proseguire la "recensione" esponendo succintamente il contenuto degli altri saggi, altrettanto importanti e interessanti, che compongono il lessico, ma mi rendo conto che le mie sintesi sortiscono l' effetto di banalizzare e, al contempo, di rendere poco comprensibili contributi densi, complessi, articolati e di privare lettrici e lettori del piacere della scoperta. Questi saggi, espressione del pensiero critico, disegnano, infatti, paesaggi e orizzonti inediti, attraverso l'impiego di categorie di analisi diverse dalle solite, producendo nei lettori una sensazione di benefico spaesamento, di disancoramento dalle ortodossie e di slancio verso un mondo nuovo. Ciò configura Genealogie del presente come prezioso strumento di trasformazione della realtà. Per questo  vi consiglio caldamente di leggerlo.
 
N.B E' probabile che dedichi ancora almeno un articolo a qualcuno dei saggi contenuti in questo libro.
Qui trovate una parte dell'introduzione.